Pagina 8 – by Luca

Lui è Arun. In Cambogiano significa “Sole che sorge”.

In una delle giornate trascorse a Siem Reap, nel nord-ovest della Cambogia, decidiamo di esplorare le campagne nei dintorni. I templi di Angkor sono bellissimi (presto ve ne parleremo) ma abbiamo voglia di vedere anche dell’altro.

Siamo attrezzati come al solito: zaino, fotocamera, borracce. Partiamo con le nostre biciclette pedalando sotto il sole che in in questo paese non risparmia, ma ormai siamo piuttosto temperati.

I paesaggi rurali cambogiani hanno un fascino esotico che cattura e riempie gli occhi. I campi sono coperti di erba alta color smeraldo e di terra rossa, le mucche pascolano indisturbate e le palme da zucchero crescono solitarie.

Ci imbattiamo in alcune abitazioni quasi fatiscenti, nascoste. Ci sono poche persone, lavorano quasi tutte fuori dalle case, intente in varie faccende in mezzo al pollame che pascola ovunque.

Un ragazzino che avrà si e no 8 anni corre per la strada guardandoci e ridendo. Ci fermiamo. Ha due occhi giganteschi e neri, i denti grandi luminosi che contrastano con la pelle ambrata e indossa una divisa blu e rossa.

Parliamo un po’ con lui, giusto con le quattro parole che sa dire in inglese. Ci chiede di seguirlo fino alla sua scuola, qualche strada più avanti. Accettiamo.

Dopo due minuti ci ritroviamo in un cortile circondati da decine di bambini in divisa che urlano e corrono in tutte le direzioni. Alcuni si avvicinano, ridono come pazzi e quando tiro fuori il cellulare per scattargli una foto si gasano da morire.

Il bambino dagli occhi giganteschi è sempre là con noi, fiero di aver portato una novità in mezzo ai suoi amici.

Ad un certo punto mi prende la mano e mi conduce fuori, Ale mi segue. Ci porta di fronte alla scuola, dove c’è una baracca di legno aperta con il tetto in paglia. Davanti c’è un bancone con della frutta esposta, e un signore seduto dietro. Sembra stanco, ha la pelle scura solcata dal sole, i capelli bianchi, e ci sorride con i pochi denti rimasti.

Lui è Arun.

Parlicchia un po’ di inglese, evidentemente imparato dai figli. Ci chiede da dove veniamo, ci riempie di domande sul nostro paese, ci dice che vorrebbe vederlo un giorno. Mi fa tenerezza, perchè so che probabilmente non ci riuscirà. Non ci toglie gli occhi di dosso, come se fossimo le prime persone con la pelle chiara che vede.

Ha una figlia di 25 anni, che arriva dopo dieci minuti. Lavora in una delle numerosissime agenzie turistiche di Siem Reap, è il suo giorno di riposo. Scopriamo essere la madre del bambino che ci aveva condotti la. Ci dice che lei è l’unica che lavora in famiglia, che sua madre è morta qualche mese prima e suo padre rimane tutto il giorno dietro al bancone a vendere frutta ai bambini che escono da scuola.

Non nomina nessun marito, probabilmente non c’è. Piacerebbe anche a lei vedere l’Italia, ma gli stipendi cambogiani le permettono a malapena di far vivere la famiglia.

Arun non si è mai mosso da quella città.

Sono i sogni che gli permettono di evadere dal suo mondo circoscritto in quel pezzo di campagna, tra i bambini e la sua bancarella.

La ragazza ci dice che ha un’altro figlio e che l’anno prossimo andrà a scuola anche lui. Dovrà comprare lo zainetto nuovo ad entrambi fra qualche mese e sta mettendo da parte i soldi da molto tempo, rinunciando a quelle poche volte in cui andava a sistemarsi i capelli per essere presentabile a lavoro. Lo dice in maniera molto tranquilla e serena, senza peso. Un problema risolto con una semplicità disarmante.

Arun ci continua a guardare con gli occhi sorridenti e un po’ lucidi. Credo che abbia capito di cosa stiamo parlando con sua figlia. E io per un momento mi sento a disagio, quasi in colpa.

Prima di andare via le regaliamo uno dei nostri due zaini, ne può bastare uno per tornare indietro. Vogliamo darle dei dollari per l’altro zaino ma lei rifiuta, e sorridendo dice che quel pomeriggio abbiamo già regalato a suo padre la felicità di aver visto un po dell’Italia attraverso noi.

Uscendo faccio fatica a trattenere le lacrime.

Lezione appresa.